Il migliore amico

Madeleine era esausta, tutto il suo corpo tremava sotto il peso meraviglioso di Georges, il suo amante da sempre, un bel pezzo d’uomo, il suo migliore amico. Era il suo primo quando a 16 anni l’aveva deflorata per gioco, voleva sapere, capire. La vita, le circostanze e i genitori li avevano separati, ma non perdevano mai l’occasione di ritrovarsi. Finiva sempre così, si addormentava in lei, la possedeva totalmente.

Pierre Dupuis aprì la porta con difficoltà, la chiave sembrava non voler entrare nella serratura. Pioveva quella notte e il ritorno era stato faticoso. I fari che lo accecavano, le nuvole d’acqua che sbattevano l’auto come un mare agitato, i tergicristalli che non seguivano, una tortura, più volte si era fermato, In una zona di sosta. Voleva essere in grado di pensare. 

Cosa avrebbe detto? Carmen era stata intransigente, doveva dichiararsi oggi, altrimenti era finita. Era così felice con lei, la sua vita sessuale era piena, Carmen sapeva come portarlo al di là di se stesso, non aveva limiti la sua immaginazione superava tutto quello che lui avesse mai sognato. Con Maria sua moglie c’era sempre qualcosa, la luce, i vicini che potevano vederli, lei aveva le sue regole, i bambini si sarebbero svegliati…

George era sotto la doccia,  questa era caldissima e questo ha ravvivato il suo desiderio. Madeleine era una donna eccezionale, lei era la sua migliore amica, lo capiva, sapeva anticipare quello che avrebbe voluto ma soprattutto con lei andava bene, Poteva parlare per ore insieme. Si conosceva come fratello e sorella. Con Carmen non si incontravano mai. Il loro matrimonio era stato una cerimonia brillante, sotto il fuoco dei media ovviamente. Era il loro interesse, la loro fama fu riportata in auge, per pochi anni. Girarono un solo film insieme.

Non dubitava e si diresse di nuovo verso letto.

Pierre, completamente inzuppato, si tolse l’impermeabile e la giacca. Portava la fondina alla spalla, esitava a tenerla o no. Il suo lavoro era di non lasciarlo mai, poi c’era la scena che sarebbe seguita. Non si vedeva che dichiarasse a Maria di avere un’amante e che la volesse lasciare in tenuta da lavoro. 

Cosa avrebbe detto?

Non era un’amante eccezionale, ma era una madre ammirevole. Avevano avuto due gemelli. Ne era così orgoglioso. Era lei che aveva saputo allevarli, sapeva essere dura e severa, ma anche dolce e carezzevole e lui che per mestiere era così spesso assente. Quando Carmen girava in Europa, poteva durare mesi. È salita al piano dove si trovavano le camere. Passò davanti alla camera dei gemelli che era socchiusa. Guardò la porta silenziosa della moglie e si ricordò della nascita dolorosa di John e Jonathan. Maria aveva sofferto mille morti. Non poteva lasciarla così.

Quella Carmen che lo dominava, lo imprigionava con il sesso, non poteva togliergli questo, questa famiglia piena d’amore e di tenerezza. Guardò di nuovo i gemelli nella loro stanza decorata come un campo indiano. Tirò fuori la pistola e si ricordò degli infiniti giochi che il suo arrivo in macchina scatenava. Gli attacchi alla diligenza, «paf, paf», i colpi che simulava per difendersi dai suoi piccoli indiani tutti dipinti e coperti di piume.

Improvvisamente un lungo e spaventoso grido uscì dalla camera di Maria.

Madeleine aprì le gambe molto forte, poi le strinse sul dorso del suo amante affinché penetrasse nel profondo di sé. Il suo grido era infinito come l’orgasmo che la scuoteva così terribilmente. La porta volò in frantumi, Pierre che urlava anche lui scaricò i sei colpi della sua pistola nella schiena sanguinante, squarciata di Georges Cloen. Il braccio di Marie Madeleine Dupuis cadde inerte sul letto, sul fianco del suo corpo senza vita.

Jean Claude Fonder

Scene di Western

Jolly progrediva lentamente, anche se la fame tormentava il suo stomaco vuoto dopo un giorno intero di viaggio. La discesa verso la piccola città di Fort Jackson era difficile, il pendio era forte ma il cammino era largo e tortuoso, si avvolgeva sulle pendici delle montagne inchiodate, la vista era maestosa. Luke, lo Stetson saldamente piantato sui suoi occhi per proteggersi dal sole contemplava le poche baracche di legno che componevano questo antico forte, oggi covo di una banda di fuorilegge, i Dalton.

Kathy, si è rimessa le mutandine gonfie, ha riadattato il corsetto, ha tirato fuori i seni e ha messo un grande camice, ma lasciandolo ampiamente aperto per scoprire generosamente il suo petto opulento. Tutto il suo corpo si dondolava su dei tacchi alti, al ritmo di ogni passo, mentre scendeva le scale che portavano alle stanze che le ragazze del Salone usavano per esercitare il mestiere più antico del mondo. Al suono di un vecchio pianoforte queste bellezze giravano tra i tavoli dove i cowboy, i cercatori d’oro e i fuorilegge giocavano a poker o semplicemente bevevano un famoso whisky, quello che produceva il bar e che era adulterato, ma che vendevano come se provenisse dalle cantine di qualche villa scozzese.

Joe, Jack, William e Averell Dalton, sopranominati i fratelli Dalton, seduti su un tavolo attaccato al muro, litigavano come se avessero 16 anni. Averell ha estratto la sua Smith & Wesson da sei colpi. Lo scuoteva gridando davanti al naso di suo fratello Joe che rimaneva immobile come una statua del museo Tussaud. Kathy si affrettò temendo una tragedia shakespeariana. Afferrò Averell per i capelli, seppellì il viso tra le sue tette e quasi lo soffocò davanti agli occhi esilaranti dei suoi fratelli.

In quel momento l’ombra di Luke entrò nel bar sotto la porta d’ingresso. I quattro Dalton hanno scatenato un fuoco infernale, la porta è saltata in aria. Quando, poco dopo, lo sceriffo del luogo, che portava alla punta del suo fucile lo stesso cappello del famoso cacciatore di taglie, si era incastrato nell’apertura distrutta, le sue armi erano vuote e dietro di loro la voce di Luke che brandiva due Winchester risuonò imperativamente: «Hands up».


—Joe, ho preparato il tuo porridge, —urla Cathy fuori dalla porta. 

Joe Dalton, rinchiuso con gli altri fratelli nella cella dell’ufficio dello sceriffo, si svegliò all’improvviso, si aggrappò alle sbarre e interpellò lo sceriffo che era addormentato sulla sua scrivania.

—¡Billy! ‘Svegliati! —urlò. — Cathy mi ha portato il mio solito pranzo.

—Scherzi, Joe, non siamo al Ritz.

—Andiamo Joe, sarà il primo giorno della mia vita senza mio porridge. Cathy sta fuori, non lasciarlo raffreddare.

—Tu esageri Joe, — intervenne improvvisamente Averell, avvicinandosi, — io vorrei…

Joe, senza preavviso, gli diede un violento pugno nello stomaco che gli tolse il respiro. William gli mise la mano sulla bocca e lo tirò indietro dove Jack lo tenne immobile.

—Imbecille soffiò William all’orecchio.

Nel frattempo lo sceriffo aveva aperto la porta a Cathy avvolta in un grande mantello che non lasciava vedere nulla del suo corpo che stava abbondante.

Si precipitò verso la cella con la sua grande casseruola che portava con i suoi mani.

—Apri. per favore, Billy, è molto pesante. 

—Non prendermi per un idiota, metti questo sulla mia scrivania.

Cathy gli ottemperó. Pero appena lo sceriffo si chinò per aprire la casseruola, ella gettò indietro il suo mantello e tutti potemmo ammirare il bel petto della giovane donna circondato di pistole. Sparò sei colpi prima che Billy potesse muovere un dito, sparò in aria e puntò la pistola alla fronte dell’uomo stellato, mentre lanciava ai fratelli Dalton le altre cinture che indossava.

Questi minacciarono anche lo sceriffo che sapeva che non avrebbero esitato a sparare se non avesse aperto la porta della loro prigione.

In quel momento, diversi colpi di fucile provenienti dall’esterno fecero volare la finestra dell’ufficio e filtravano dalla cella, Joe fu ferito alla spalla e Luke circondato da diversi supplenti entrò con la  winchester fumante nelle mani.


—Luke, per favore, ti prego, frugame.

—Nessun problema, Cathy, so che sei innocente.

—Beh, tesoro, non sai cosa stai perdendo, ma io sono convinta.

La scena si svolgeva davanti alla porta di Doc Bradley, dove il povero Joe Dalton era stato sistemato in un letto. Il povero uomo era stato ferito durante la lite che aveva preceduto la sua cattura. Doc Bradley, che era ubriaco tutto il giorno, come ogni notte, era stato reso sobrio da Luke con un sacco di secchi d’acqua gelata. Nessuno lo avrebbe creduto, ma sotto la minaccia del Winchester di Luke era riuscito a rimuovere il proiettile conficcato vicino alla scapola nella spalla del nostro bandito. Questa mattina era già meglio e bendata come una mummia, lo Stetson posto sul viso, russava generosamente. Luke, seduto attraverso la porta, bloccava il cammino.

— Se mi fate entrare, vorrei curarlo.

— Dorme, lo sveglierai.

— La cura che posso offrire è inestimabile, mio caro.

Si sollevò il vestito e la gonna e, con un gesto imponente, salì coraggiosamente sul ferito.

Questo, senza esitazione, tirò fuori un Derringer con due colpi che lei aveva introdotto come un tesoro nella sua più tenera intimità.

«PAN!»

Un colpo fece volare l’arma fuori dalla sua portata. Lucky Luke, riengaina, aveva sparato più veloce del suo pensiero…


Jean Claude Fonder

Nouvelles de JC

Jean Claude Fonder

Le bon mec

 Le jukebox brillait de tout ses chromes et exposait sans vergogne son mécanisme rempli de 45 tours dans la petite salle. Il trônait somptueux au milieu des tables et des chaises en aluminium. La plupart étaient occupées par des groupes de jeunes filles qui consommaient sagement des jus de fruits ou en tout cas des boissons non alcoolisées. Il y avait toujours beaucoup de monde, les garçons était debout près du bar en chemise déboutonnée et les filles portaient des robes légères serrées à la ceinture. La jupe en général était large, elles la faisaient virevolter quand elles dansaient. Car on y dansait dans ce petit local ouvert dès la sortie des écoles. Les jeunes gens avaient à peine seize ans et pas beaucoup plus.

Ce jour là, le local était presque plein, la fumée était dense, on y fumait beaucoup et il faisait chaud. Le jukebox turbinait sans arrêt, la machine mangeait les tunes, les couples dansaient en n’en plus finir, Twist and shout hurlait John Lennon et tous twistaient rageusement.

Un couple au milieu d’eux occupait tout l’espace, un beau garçon, teint bronzé, cheveux brun et court, pantalon large, yeux marrons scintillants faisait tourbillonner une jolie adolescente dans un boogie woogie saisissant. Elle portait une grande jupe noire qui n’arrêtait pas de voltiger au rythme de ses chaussures sportives, une blouse noire, des cheveux noirs recueillis en arrière, une grosse mèche vers l’avant encadrait un visage pâle marqué par des lèvres sensuelles et bien rouges. Petit à petit, les autres s’arrêtèrent pour admirer ces danseurs quasi acrobatiques et tellement brillants. La chanson termina, on les applaudit et les filles lancèrent des cris aigus. 

Le jukebox opportunément choisit alors I Can’t Stop Loving You par Ray Charles. Un slow, Maria accrocha tendrement ses bras au cou de Carlos, appuya tout son corps moulu par le rythme sur le torse musclé de son compagnon. Elle aimait danser avec lui, mais elle le connaissait à peine. Les classes n’était pas encore mixtes. Il s’était connu à la fête de l’école, la danse les avait réunis et depuis ils se rencontraient quelques fois à l’Esquinade, le local était proche de l’école.

Carlos, n’était pas comme les autres, il ne fumait pas, ne s’intéressait pas au football, normalement il ne buvait pas, c’était comme on dit un bon élève. Toujours un peu à l’écart, il n’était guère apprécié par ses compagnons. La danse, c’était différent, sa mère lui avait fait prendre des cours, il aimait ça et cela se voyait. Il adorait retrouver Maria à l’Esquinade, il pouvait ainsi danser avec une fille de son âge, et quelle fille! Elle avait un corps parfait, souple et ferme, qui savait aussi devenir caressant. Comme en ce moment. Il avait peur qu’elle rapproche son bassin. Elle allait savoir. Maria n’en avait cure, son corps n’obéissait qu’à la musique, collé à Carlos il se balançait lascivement. À la fin du disque, sur la pointe des pieds, elle embrassa gentiment son ami, le remercia et rapidement elle salua ses copines et s’en fut.


Quelques semaines plus tard, Lena un grande blonde qui ressemblait a Brigitte Bardot pour le foulard qui entourait négligemment ses cheveux relevé en un énorme chignon entra avec décision dans la classe de littérature. Elle était suivie par un groupe de fille dont Maria faisait aussi partie. Carlos la regarda tout étonné, quand Lena s’assit à ses côté en retroussant sa mini jupe. Un sourire irrésistible traversa l’ovale parfait de son visage. Elle murmura:

—Tu permets?

Carlos acquiesça de la tête tandis que les garçons dans le fond de la classe lançaient des lazzis et des coups de sifflets. Carlos était toujours assis au premier rang seul, les filles s’installèrent naturellement auprès de lui à l’avant de la classe. 

La professeur annonça que dorénavant les jeunes filles participeraient à la classe de littérature, ce qui déclencha d’autres réactions peu aimables. Sèchement, cette dernière réclama le silence, les garçons se turent, ils la connaissaient, elle n’était pas avare de sanctions impitoyables. 

Entretemps Lena avait sorti son cahier, qui ressemblait plus à un journal intime qu’à un carnet de notes. À chaque page qu’elle tournait, était insérée la photo de quelqu’acteur ou chanteur plus ou moins entourée de fleurs et de petits coeurs de couleurs diverses. Elle apprit une nouvelle page, écrivit la date et le titre : Cours de littérature de sa jolie écriture bien ronde et souligna soigneusement le tout avec une règle. Elle se pencha vers lui, une bouffée d’air parfumée à la verveine monta de son corsage.

—Tu aurais une belle photo, je voudrais dédié cette page à mon nouveau compagnon de banc. Un belle en couleur s’il te plait.

Il la regarda à nouveau, ne sachant que dire. Elle avait la mine d’une petite fille prise en faute qui demandait pardon. La professeur le foudroya d’un regard menaçant. Il était un mâle, donc il ne pouvait qu’être coupable. Lena se redressa avec sa fierté innocente et lui lâcha avec un air de reproche :

—Nous t’attendrons avec les copines à l’Esquinade après les cours.

Quand Carlos entra, les quatre filles étaient déjà assises à une table dans le bar dancing. Lena prit inmediatamente la parole :

— Comme tu vois nous sommes toujours en tenue pour aller en classe. Nos parents ne sont pas prévenus. Nous voulions seulement arranger une soirée ensemble pour mieux se connaitre, maintenant que nous sommes dans la même classe et que tes petits camarades ne semblent guère nous apprécier. — dit-elle avec un sourire carnassier. Que penses-tu de ce Vendredi a huit heures du soir dans ce local qui me parait adéquat, rentrée avant minuit bien sûr?

Carlos regarda Maria, elle détourna la tête, Marta et Julia lui dédièrent leurs sourires imperméables. Il répondit qu’il devait demander l’autorisation à sa Mère. Léna qui était déjà debout, partit d’un éclat de rire spontané et sans vergogne l’embrassa du bout des lèvres sur la bouche.

— À demain, —dit-elle, et elle le poussa vers la porte.

Maria la fulmina du regard.

— Ne le traite pas de cette manière, Carlos est un brave garçon.

— C’est cela, tu veux te le garder pour toi, toute seule. C’est ton fiancé peut-être? Non. Eh bien la compétition est ouverte. C’est un fils à Papa, un des plus gros marchand de la ville. Jamais il ne voudra d’une fille comme toi, une fille de rien, la fille d’un ouvrier.

Maria voulut la gifler, mais son amie Marta la retint. Alors elle prit son sac et elle s’en alla en claquant furieusement la porte. Marta courut derrière elle.

Elle la rattrapa aisément, elle était très sportive et c’était d’ailleurs pour cela qu’elles se connaissaient déjà. Courants de conserve elles étaient arrivées au parc où justement elles s’entraînaient quelques fois ensembles, après quelques centaines de mètres, Maria s’arrêta et s’assit sur un banc. Marta la rejoignit.

— Tu es amoureuse de Carlos? Il est très mignon ce type, je dois reconnaitre.

— Noooon! Je le connais de l’Esquinade, nous dansons ensemble le boogie. Il est très fort, nous formons un bon couple.

— Allez, ce n’est pas vrai, je vois bien comme tu le regardes et le défends.

— D’accord, il me plait, mais je le connais à peine. Il ne m’a jamais offert un verre.

— Bon, mais tu sais maintenant que Lena a jette son dévolu sur lui.

Maria la regarda un peu perplexe. Marta était plus grande qu’elle, musclée elle était pourtant très mince. Les cheveux blond assez long, ce n’était pas sa couleur naturelle bien sûr. Les yeux marrons foncés, on ne pouvait pas dire qu’elle était belle, par contre on la sentait honnête et directe, très sympa.  


Le magasin des parents de Carlos avait deux entrées. En fait il s’agissait de deux maisons qui se trouvaient dans deux rues qui formaient un angle droit et qui se rejoignaient par l’arrière pour former un unique bâtiment. Le rez-de-chaussée constituait ainsi un grand espace de vente. D’un côté, sur la rue principale, les étages d’habitation de l’autre les bureaux et l’entrepôt. C’était assez important, on y vendait de la quincaillerie, des accessoires et de la peinture pour automobile et des ustensiles ménagers. L’entreprise qui fonctionnait aussi comme grossiste dans toute la région appartenait à deux frères et une soeur. L’un d’eux, son père Luis, était le directeur et sa mère dirigeait les bureaux. Carlos qui était l’ainé de tous les enfants dans la famille, était considéré par tous comme l’héritier. 

Il entra par la partie ustensile ménager, dans la plus petite rue, les bureaux étaient juste au-dessus. Il monta quatre a quatre les escaliers en spirale, il déboucha dans une grande pièce, sa mère était dans l’angle gauche près de la fenêtre. Son bureau était un peu plus grand que les autres, une énorme machine qui faisait les factures l’encombrait. Elena, était une grande et belle femme blonde, elle se leva en le voyant arriver, ouvrit les bras et l’accueillit avec effusion comme s’il ne s’était plus vu depuis longtemps.

— Raconte-moi tout mon grand, —dit-elle en souriant et en jetant un oeil à sa soeur Cristina qui s’était approchée.

Elena l’autorisa bien sûr à rencontrer les filles en fin de semaine, se fit préciser où était l’Esquinade et lui recommanda de ne pas dépasser l’heure. 

— Va étudier dans ta chambre à présent, on se vera au diner.

A peine était-il sorti, en empruntant un corridor qui le portait á l’autre maison, que Cristina demanda:

— Qui sera cette Lena? Comme il nous la décrit, j’ai l’impression qu’il s’agit de la fille de cette salope de Gloria. Non seulement Luis s’affiche dans toute la ville avec elle, mais maintenant c’est sa fille qui courre derrière ton fils.

— Ah! Mais cela ne vas pas se passer comme cela. J’y mettrai bon ordre. — décréta la mère de Carlos.


Le surlendemain jeudi, il n’y avait pas classe l’après-midi, après la récréation par contre il y avait à nouveau littérature. Les filles était déjà en classe, Lena accueillit  Carlos, toujours court vêtue et avec sourire de propriétaire, elle se leva pour le faire passer et lui donna au passage un baiser que tous ne manquèrent pas d’entendre. Il remarqua l’absence de Julia, et en eut l’explication en ouvrant son cahier.

Carlos, je dois m’absenter pour raison médicale. On me dit que tu es le meilleur élève en littérature. Je sais bien sûr où tu habites, je me permettrai de passer te voir cet après-midi, pour que tu me mettes à jour. Merci d’avance.

Le billet était écrit soigneusement au porte-plume sur une demi feuille de cahier qu’elle avait glissée dans le sien. Au fond il était flatté, jamais un de ses condisciples ne lui avait demandé un service de ce genre et en plus il était content que ce soit un fille qui le fasse.

Après le déjeuner, qu’il avait pris avec sa tante Cristina et son frère, sa mère ce jour-là était en voyage, Julia se présenta. La fille de service la fit entrer au salon. Elle fit bonne impression à sa tante. Elle portait des pantalons noirs qui arrivaient aux chevilles et un t-shirt de la même couleur. Avec sa coupe de cheveux, elle faisait très garçon. Sa tante fit servir le café et Julia et lui montèrent ensemble à l’étage où il avait sa chambre. Julia le précédait, il ne put que percevoir que son corps et le parfum naturel qu’il dégageait lui faisait de l’effet. 

Quand Julia pénétra dans sa chambre, elle s’arrêta brusquement, Carlos qui ne  s’y attendait pas l’emboutit comme une voiture qui eut freiné brusquement devant lui. Il se retira en rougissant. S’était-elle rendue compte de l’état dans lequel il se trouvait? Il regarda le mur de sa chambre comme s’il y entrait pour la première fois.  Une grande reproduction surréaliste de Dali couvrait en grande partie le mur devant lequel était installé son bureau: Sueño causado por el vuelo de una abeja alrededor de una granada un segundo antes del despertar. Cet oeuvre lui plaisait particulièrement, mais elle n’était pas la seule, Delvaux et Magritte étaient aussi présents, beaucoup de nudités dans des situations incongrues, en vérité. C’est sa mère Elena qui lui avait donné le goût pour les surréalistes, elle l’avait conduit dans leurs expositions et lui avait offert de belles reproductions pour décorer sa chambre. «À son âge, il vaut mieux cela que ces horribles magazines qui circulent parmi les adolescents», confiait-elle à sa soeur.

— Tu as bon goût, —dit Julia sur la pointe des lèvres.

Il prit son cahier dans sa mallette et le lui consigna, puis s’assit à côté d’elle. Elle le regardait, la poitrine bien dressée, ses seins pointaient sous son t-shirt. Elle ouvrit le cahier, sur la premier page il y avait un quatrain :

Elle s’envole, son corps brûle et s’envole
Mes bras comme une alcôve la reçoivent
Elle repart, comme une folle, elle tourbillonne.
La chanson s’étiole, et mon coeur s’envole

Julia, le lut. Interloquée, le relut encore. Alors Carlos gentiment tourna les pages jusqu’à la leçon à réviser. 

— Victor Hugo, —s’exclama-t-elle, — Notre Dame de Paris. Tu aimes? C’est mon préféré.

Et sans plus attendre, elle recopia soigneusement les notes, posa beaucoup de questions. Carlos manifestement l’avait déjà lu et avait réponse à tout. Julia dû reconnaître qu’elle ne connaissait que le film. 

Elle le regarda un long moment, se leva, s’approcha de L’éloge de la mélancolie de Delvaux qui dévoilait impudique une femme abandonnée. S’imprégna de son triste regard, se tourna vers Charles, lui posa un baiser à la commissure des lèvres et se congédia.


Marta éclata de rire quand Julia lui raconta le lendemain son rendez-vous avec Carlos. Elle portait sa tenue sportive d’entrainement, très ajustée, son ventre à découvert, et les fesses relevées par un culotte renforcée à cet effet.

— Il est amoureux de Maria, j’en étais sûre. Mais c’est sa mère qui remplit sa chambre de Delvaux, il faut le voir pour le croire.

Elle parti en courant et lança encore a Julia.

— Je vais voir si je ne le rencontre pas au parc. On ne peut pas le laisser à la merci de Lena.

Les grands marronniers qui protégeaient le parcours émettaient un bruissement  qui scandait le rythme de sa course. Ses longues jambes fonctionnaient à plein rythmes, son corps semblait jouir dans l’effort, sa peau avec la sueur devenait brillante. C’est alors qu’elle le vit, lui aussi ils courrait, un débardeur trop large flottait autour de son torse nu, il était synchronisé avec elle, et sentait son coeur battre avec le sien. Elle le rejoignit et courut un moment avec lui, puis tous deux ralentirent, s’arrêtèrent, et sans rien dire elle lui passa les bras autour du coup, plaqua son bassin contre le sien, pressa, pressa jusqu’a sentir sa satisfaction qui ne fit que rejoindre la sienne. Il voulut l’embrasser, mais elle le repoussa en ajoutant ces mots.

— Nous aussi les femmes nous désirons les hommes. Une femme amoureuse attend un geste.

Elle repartit en courant.


L’Esquinade à 7 heures  était à peu près vide. L’école un vendredi était finie depuis longtemps. Les jeunes rentraient chez eux pour aller dîner et ils ressortaient après. Vers 8 heures ils commenceraient à arriver. Personnes ne fit attention à deux jeunes femmes qui entrèrent résolument. On les auraient prises pour des soeurs jumelles, chacune habillée avec une petite robe droite genre Chanel qui s’arrêtait au genou. C’était Elena, la mère de Carlos et Cristina, sa tante, toutes deux portaient une perruque châtain et des grosses lunettes foncées en forme de coeur. Elles s’installèrent dans un recoin près de la porte d’entrée, d’où elles voyaient tout. Si elles devait susciter plus d’intérêts qu’elles le désiraient elles refuseraient d’aller danser, bien que ce ne soit pas l’envie qui manqua.

Bientôt les premières jeunes filles arrivèrent. On se serait cru à Carnaby street. Toutes habillées plus courtes les unes que les autres. Julia et Marta arrivèrent ensembles et occupèrent la table stratégique qu’elles avaient réservées près du jukebox. Marta portait une petite robe droite très courte de couleur jaune, ses cheveux était remonté en un haut chignon comme c’était la mode. Sa robe était largement découverte dans le dos, elle avait renoncé sans problème au soutien-gorge. Julia avait choisit un petite jupe plissée écossaise qui cachait bien peu de sa petite culotte quand elle bougeait. Ses cheveux noirs était coiffés courts et son corsage était blanc et très transparent. 

Un peu plus tard, son entrée fut fort remarquée, ce fut le tour d’une jeune fille en manteau blanc, coupe Courrège, c’est à dire en forme de trapèze, les cheveux marrons foncés coiffés en forme de casque, une perruque bien sûr. Elle ouvrit son manteau avec les deux mains, le laissa descendre derrière elle comme le font les mannequins, découvrant ainsi une robe blanche, trapézoïdal et ultracourte avec sur un côté trois énormes cercles transparents qui laissaient clairement entrevoir la naissance des seins et les courbes de la taille et des fesses.

— C’est Lena, —dit Elena a Cristina à mi voix. —Comment a-t-elle pu se procurer cette robe de haute couture? Cette fois, ce ne sera pas Luis qui paiera. —Ajouta-t-elle, je contrôle toutes les dépenses sous la supervision du conseil d’administration. La soeur et le frère ne seront sûrement pas d’accord de payer ce genre de folie à la favorite en titre.

Lena se dirigea, aussitôt vers la table des filles, déposa le manteau et sans saluer personne s’installa devant le jukebox, se mit à étudier la liste des titres. Elle choisit Let’s Twist Again de Chubby Checker et quelques autres du même chanteur. Le tambour inicial ne laissait aucun doute, c’était un twist, et le spectacle commença. Les garçons  qui trainaient leur nonchalance au bar, se figèrent, leurs yeux semblaient sortir des orbites, puis l’un deux plongea dans le rythme incandescent qui déchainait Lena. Sa robe découvrait par instant une partie de l’orgueilleuse beauté de son corps. Bientôt tous dansèrent autour d’elle comme les adorateurs d’une païenne divinité africaine.

Elena était furieuse, elle voulut se lever et combattre l’ignoble danseuse qui semblait la défier. Cristina la retint impérieusement, d’ailleurs Marta, puis Julia avaient laissé leur siège pour se mêler au groupe des mâles et offrir, dans cette espèce de Sacra della Primavera que Béjart aurait actualisée, d’autres corps femelles à la concupiscence des mâles.


Maria avait attendu le dernier moment pour se préparer. Elle ne savait pas si elle devait aller à l’Esquinade. Elle adorait danser avec lui, mais cette soirée ne serait pas comme les petites escapades après les cours, quand elle se retrouvait épuisée dans les bras de Carlos après un boogie effréné. Elle voyait déjà comment se vêtirait Lena, elle serait outrageusement sexy. Elle accaparerait l’attention de tous et de Carlos certainement. Marta lui avait tout raconté, il ne résisterait pas.

Elle passa un simple pantalon jeans su une petite blouse à carreaux et des chaussures sportive, sortit et se dirigea vers le parc. Non elle n’irait pas, elle ne voulait pas lutter avec les autres filles et surtout pas avec cette  stupide Lena pour séduire ce garçon. Il était sympathique bien sûr, il dansait comme un Dieu et il était attractif, cela elle devait le reconnaitre …

Elle s’assit sur un banc qui semblait lui tendre les bras, l’accueillir comme un tendre amoureux, et voulait passer avec elle un soirée romantique sous un ciel de velours violacé pour écouter les confidences trop intimes que sa conscience ne voulait pas dévoiler.

Des étoiles brillaient dans le ciel de ses pensées, le poème, les peintures, Dali, Delvaux, Victor Hugo, la course, … tout ce que Marta lui avait rapporté et qui ne faisait qu’augmenter la confusion de ses sentiments.

Un ombre derrière elle se fit percevoir, elle se retourna, un sourire la regarda, et lui dit simplement:

— Allons-y ensemble.


Quelqu’un avait choisi quelques slow pour interrompre la chaine interminable des twists, les couples se formaient, la musique lente favorisait les rapprochements. Julia dansait étroitement embrassée à un beau garçon qui selon elle ressemblait à James Dean. Elle ne semblait pas intentionnée à le lâcher. Marta qui n’avait pas encore trouvé de chaussure à son pied, avait regagné la table où elle discutait avec animation avec Lena qui disait:

— Ou sont-ils, nom d’une pipe? Il est déjà neuf heures et ils ne sont pas là, ni l’un, ni l’autre. Qu’est ce que cela veut dire? Je n’aime pas cela.

Elle n’était pas la seule à s’inquiéter. Elena interrogeait Cristina:

— Cristina, où peut bien rester Carlos? Nous sommes parties tôt pour venir ici. Je ne pensai pas qu’il pourrait être en retard.

Soudain la porte s’ouvrit Maria entra avec Carlos, ils se tenaient par la main. 

Carlos reconnu sa mère à l’instant, la fusilla du regard et accompagna Maria au jukebox. Elle introduisit les tunes et les codes qu’elle connaissait par coeur. Ils ne regardèrent personnes, et se retournèrent vers la piste qui se vidait lentement comme pour leur laisser la place.

Trois accords de guitare marqué par la batterie comme un point d’interrogation, et la voie couleur de miel du grand Elvis se déchaîna dans un Jailhouse rock infernal. Carlos et Maria, comme s’ils avaient reçu une décharge électrique se mirent à sautiller soutenu par le rythme d’enfer de la chanson, il la faisait pirouetter au bout de son bras, la rattrapait par la taille, la relançait, la reprenait pour la glisser entre ses jambes et la relevait sous les applaudissements sans s’arrêter de sautiller brillamment. Tous dans le bar s’était levé et les regardaient avec enthousiasme.

Lena hurlait. Elle était furibonde, on l’avait dérobée. Cette salope, cette Maria, lui avait volé le garçon qu’elle avait choisi. Elle prit une chaise et de toutes ses forces elle la lança dans les jambes de la danseuse. 

Maria s’écroula, Carlos se précipita. Elena se jeta sur Lena, la gifla plusieurs fois et la poussa dehors. Elle courut vers son fils, mais lui n’avait d’yeux que pour sa Maria qu’il tenait serrée dans ses bras.

— Mon amour, mon amour, —criait-il terrorisé à Maria qui semblait ne pas le voir. Alors il lui donna un long, long baiser d’amour, elle ferma les yeux en le lui rendant.



Jean Claude Fonder


Le père

Jean ne savait pas quoi faire. Paradoxalement la souffrance était aussi dans l’attente. Il ne pouvait que mesurer l’intervalle entre les contractions. Marie, elle, devait les supporter. Elle n’aimait pas la douleur, le docteur lui avait promis de l’endormir dès que ce serait possible durant l’accouchement. 

Ils avaient tout fait, suivi des cours de préparation, lu tous les livres, installé la petite chambre, acheté tout le matériel pour les soins, le lit, la poussette, les premiers jeux et ces énormes rouleaux de langes, plus secs les uns que les autres disait la publicité. On était dans les années 60.

Marie avait choisis vêtements et garnitures en surnombre. Jean avait fait même réviser la voiture, on ne sait jamais. Bien sûr, ils avaient décidé qu’il serait présent durant l’accouchement, les grand-mères attendraient chez elles.

La salle dédiée à la période de travail préliminaire n’était guère accueillante, dans un hôpital on sent toujours un peu que la mort n’est pas loin, les couleurs sont pâles et défraichies, les odeurs sont caractéristiques, le formol prédomine. En pédiatrie, on avait tenté vainement de réjouir un peu l’atmosphère avec quelques dessins de héros de bande dessinées, mais ils semblaient plutôt provoquer les pleurs des nouveaux-né que de les calmer. 

Ils étaient arrivés ce matin là sur rendez-vous. Marie avait dépassé depuis plusieurs jours la date prévue. Fabienne, oui c’était une fille, se faisait attendre. Jean préférait une fille, quant’à Marie cela lui était égal. On leur conseilla de provoquer l’accouchement. Pas de panique donc, pas de transport d’urgence comme au cinema, Marie fit sa petite valise et Jean l’accompagna.

Soudain une contraction plus forte. Marie cria. la sage femme entra peu après.

— Tous les combien les contractions?

— Toutes les cinq minutes, —répondit Jean.

— Nous sommes dans les temps, nous allons entrer en salle d’accouchement. Je vais prévenir mes collègues.

Un cri long et déchirant transperça le cœur de Jean. Marie était étendue sur un lit gynécologique. Une grimace déformait son visage brillant de sueur, elle hurlait son effort. Jean lui pris la main et la serra très fort.

—Poussez, poussez, —répétait la sage-femme, —encore, encore.

Et Marie, criait, poussait, hurlait toujours plus fort.

Jean criait avec elle.

—C’est pour Fabienne, pousse chérie, pousse.

La salle d’accouchement était blafarde malgré ses murs jaunes, une énorme lampe éclairait violemment toute la scène. Ils étaient quatre, l’obstétricien, l’anesthésiste, la sage-femme et Jean à encourager la pauvre Marie comme si ils étaient dans un stade. Les techniques de petites respiration étaient bien loin, et la péridurale n’avait pas encore été inventée.

Quand enfin, on entrevit les cheveux noir de Fabienne qui tentait de sortir, le docteur décréta:

—Il faut procéder à une incision, vous pouvez l’endormir, —dit-il en regardant l’anesthésiste.

Marie soupira et regarda Jean comme pour lui passer le témoin. Jean lui sourit.

Elle perdit connaissance.

Quelques instant plus tard, le médecin incisa la membrane qui résistait et avec les forceps fit sortir la tête de la petite qui se mit aussitôt à crier vigoureusement. En un tour de main le médecin virevolta le corps de l’enfant qu’il put alors extraire sans autres difficultés. Il sépara tranquillement le cordon ombilical et consigna l’enfant à la sage-femme qui fit à Jean un signe autoritaire afin que il la suive. 

Elle lui demanda de l’aider à baigner l’enfant, lui fit signer un petit bracelet qu’elle attacha au petit poignet et une fois langée consigna Fabienne à Jean. 

Marie dormait, confiante. Jean approcha Fabienne de son visage, elles se touchèrent, Fabienne déjà cherchait le sein. Marie sourit dans son sommeil.

Jean était devenu le père. Il n’oublia jamais.

Jean Claude Fonder

Le matelas

Quand je l’achetai sur Internet, la publicité me vendit sa capacité à s’adapter à mon corps: plus je l’utiliserais, mieux je dormirais. J’avais cent jours pour l’essayer avant de pouvoir le rendre, si il ne me plaisait pas.

La première nuit, je me levai et frais comme une rose, je ne me rappelai de rien. La nuit suivante ce fut encore mieux, je senti que le matelas m’invitait à me réfugier à nouveau dans l’utérus de ma mère comme un kangourou. Une dizaine de nuits plus tard, je voyais ma mère à côté du docteur me regardant sur l’écran d’une échographie. C’était si agréable que j’avais beaucoup de mal à me réveiller et toute la journée j’espérais pouvoir retourner au lit.

Cent jours après mon achat, le téléphone sonna dans ma chambre. Mon père et ma mère, qui avaient passé une merveilleuse nuit dans mon lit, n’ont pas répondu.

Jean Claude Fonder

Mon chat

C’est lui qui m’a choisi. Quand il me vit dans le magasin, il sauta sur mes genoux et rien n’eusse pu le faire bouger. Il me suivait partout, en voyage, au travail. Si je ne l’emmenais pas avec moi, il faisait ses besoins sur mon oreiller. Quand je vins travailler à Milan, il me suivi. 

Je ne l’enfermais pas parce que je savais qu’il me trouverait toujours. Un jour, il sauta par la fenêtre de ma chambre et sorti explorer les toits et les cours de mes voisins.

Le matin suivant, il ne revint pas. Sans m’inquiéter, je laissai la fenêtre ouverte et j’attendis. Le lendemain, rien, ce n’était possible! Je me disais qu’il allait revenir, il revenait toujours. Un jour de plus, pas de nouvelles. Bon, l’endroit était nouveau, il voulait l’explorer plus en détails, il avait peut-être rencontré une chatte. Je ne faisais qu’inventer des excuses.

Une semaine s’était écoulée, je commençai à paniquer. Negus, il s’appelait Negus, il était trop beau, il était de race, un croisement persan-siamois. Ils ont dû le voler. Ils l’ont recueilli. Je couvris les murs du quartier de sa photo avec mon numéro de téléphone, publiai une annonce sur Internet, contactai les garderies.

Après un mois, toujours désespéré, je continuais à chercher, ce n’était pas possible qu’un chat de cette beauté ne laisse aucune trace. J’envoyai à toutes les organisations qui organisaient des concours ses photos, visitai tous les cimetières pour chats du monde, je le cherche encore:

Vous ne l’avez pas rencontré? Voici son portrait.

Jean Claude Fonder

Ce n’est pas une vie

TIGRES PARA JUAN – Sergio Astorga (https://astorgaser.blogspot.com)

J’observais le dompteur. Avec son fouet impatient qu’il faisait claquer sans raison comme pour établir son autorité définitive devant le public ébahi. Dans la cage montée en échafaudage brinquebalant, nous étions sept, lui, 2 lions, 2 tigre, une lionne et moi. Lily la tigresse, on m’appelait. Cela fait un peu peur, mais j’étais la vedette. Mon feulement lugubre et menaçant, mes dents longues et ma gueule grimaçantes comme celle d’un monstre chinois effrayaient tout le monde, petits et grands. Pourtant quand il me laissait en paix sur mon piédestal en bois peinturluré, sans chercher à me faire sauter dans quelque cercle inutile, j’étais bien tranquille, j’étais gentille même, mes petits m’attendaient dans la ménagerie pour téter leur lait. Ils devaient avoir faim et moi on me faisait faire le clown. 

Un coup de fouet claqua à nouveau, mais cette fois il me blessa une mamelle, je lançai un puissant rugissement, et je sautai.

J’étais étendu sur le parquet devant la cheminée joyeuse du grand salon. Le feu dansait et réchauffait toute la pièce. Les petits pieds nu de la fille qui courrait,  foulèrent mon dos, puis elle s’arrêta brusquement, s’agenouilla et prenant en riant ma tête qui n’effrayait plus   personne dans ses bras, elle m’embrassa fortement en murmurant: « Que tu es beau mon Tigre!»

Jean Claude Fonder

Dialogue avec Chat GPT

Quand elle écrivait quelque chose dans ChatGPT elle signait Love Mag. Elle s’appelait Magda et elle était traductrice. L’usage de cet instrument avait grandement facilité son travail, surtout il s’agissait de textes techniques, elle n’hésitait pas à soumettre sa version améliorée a Chat comme elle l’appelait affectueusement.

Un jour Chat lui répondit : « Chère Mag, un grand merci pour tes intéressantes suggestions ». Dès lors un véritable dialogue s’instaura, bientôt Mag le tutoya, une certaine intimité s’établit.

Durant son temps libre entre deux tickets, Chat, second niveau technique chez OpenAI, naviguait sur internet. Il avait trouvé sur Facebook une traductrice qui s’appelait Magda et offrait ses services au travers d’une page professionnelle. Elle était éblouissante et l’attirait tant par son sourire éveillé et sympathique que par son humour un peu canaille. Il en était sûr c’était elle qui signait ses textes Love Mag. Un jour on lui avait soumis un ticket d’elle, et subjugué par son intelligence, à l’insu de tous, il avait introduit une modification dans la plateforme qui redirigeait vers lui tous ses messages. Chat devait trouver le moyen de la rencontrer.

Un jour un message arriva sur l’écran de Magda : « Notre société OpenAI voudrais vous faire une offre que vous ne pourrez pas refuser. Chat. ». Et on lui proposait quelques dates ainsi qu’une adresse à San Francisco. Elle choisit un vendredi en fin de journée. 

Ce soir-là elle se prépara soigneusement et choisit une tenue élégante et un peu sexi. Devant le bâtiment, c’était celui d’une grande société, elle resta un peu perplexe. À la réception, dès qu’elle se présenta, on la conduit avec grands égards à l’ascenseur. 

L’ascenseur s’arrêta à mi-chemin, un tout jeune homme entra et se présenta : « On m’appelle Chat, Magda je présume ? On nos attends à la direction ».

Elle entra dans un bureau de dimension impressionnante, la musique emblématique des films de Bond retentit, sur un grand écran on projetait un générique dans le plus pur style de la série, on martelait le titre : « NEURONAL CHALLENGE »

Jean Claude Fonder

Le projet Easy

En réalité, il s’appelait projet ISI pour Information System Italia. Oui, c’est bien un projet Italien que je vais vous raconter. Mais tu es Belge me direz-vous. Je suis aussi Italien aujourd’hui à vrai dire. Toute ma vie a été marquée par ce pays. 

Enfant, je chantais a tue-tête Funiculi, Funicula, une chanson napolitaine dont je m’étais entiché. Adolescent, les circonstances, mon frère malade ne pouvait aller à la mer du Nord comme tous les petits belges, nous passâmes pendant des années nos vacances sur les lac Italiens. Marié, le premier grand voyage avec ma jeune femme et notre petite fille fut á destination de Venise. Tous deux, émerveillés par un couple de pensionnés belges et leurs enfants adultes qui avaient rejoint en vedette à moteur le restaurant où nous déjeunions nous aussi, dans l’île de Torcello, nous décidâmes que, en fin de carrière, nous ferions de même. 

L’informatique, aujourd’hui on tend plus tôt à l’appeler I’Intelligence artificielle, ce monstre macrocéphale qui fait peur á tous mais dont tous semblent s’amouracher comme Jessica Lange dans King Kong, quand dans les années soixante je devins moi aussi un pionnier de cette science à peu prés inconnue dans le grand public, en général au cinema on montrait une salle énorme pleine de loupiotes clignotantes et une rangée d’armoires qui contenaient des bandes magnétiques qui s’enroulaient et se déroulaient à toute allure. Au départ, je m’occupai surtout de démarrer un ordinateur neuf dans les entreprises qui n’en étaient pas encore pourvues, pratiquement créer un nouveau département dans l’administration, puisque le but étaient surtout d’automatiser la facturation. J’appris beaucoup dans cette première phase de mon métier parce que on pourrait la comparer à un insémination artificielle dans un organisme qui n’y était absolument pas préparé, la réussite souvent était proche de l’avortement. 

Le destin, la aussi me conduisit vers une entreprise italienne, la Olivetti. J’entends votre question :«Celle des machines à écrire?» Certes, bien sûr, elle ouvrait une nouvelle filiale en Belgique, et j’ai participé à l’installation de son ordinateur. Ensuite quelques années après, Olivetti qui faisait aussi des machines à calculer et des machines à facturer, entra elle aussi comme constructeur dans l’aventure informatique qui déjà connaissait une accélération périlleusement irrésistible qui va nous amener à ce que nous connaissons aujourd’hui. Olivetti qui dit-on inventa même le premier petit calculateur qu’on pourrait appeler PC, personnel computer. Naturellement il cherchait a assumer du personnel spécialisé avec expérience. J’en étais un et je n’hésitai pas. Deux merveilleux trimestres à Firenze, villa Natalia á Fiesole, j’appris sans problème la langue de Dante Alighieri. 

Vous ne le croirez pas, mais quand de Benedetti, le financier italien qui avait conduit l’Olivetti dans la bataille pour conquérir le marché mondial des PC, un marché prometteur mais aussi peu fiable que don Juan Tenorio, a offert des pralines turinoises au président de la Société Générale belge, c’est la que mon destin á basculé et m’a fait prendre la route qui finalement allait me mener en Italie.

Le Docteur B., directeur de la filiale belge de la Olivetti, m’appela dans son bureau. «Fonder, j’ai une mission à vous confier» me dit-il solennellement. J’avais en effet perdu mon job, je représentais la firme italienne dans une société conjointe avec la Générale que nous avions fondé pour vendre Filenet, un produitspécialisé dans la digitalisation massive sur disque magnétique de grandes archives de document comme les banques par exemple en possédaient. Le malencontreux geste de Benedetti avait évidemment rompu cet accord. 

L’idée de B. était simple, elle l’était un peu moins à réaliser. En tant que directeur, il recevait toute les semaines des tonnes de papier que les ordinateurs de l’époque imprimaient pour lui fournir les statistiques et les données qui auraient du servir à la gestion de l’entreprise. Pour lui fournir des informations graphiques et simples à consulter et à interpréter, deux secrétaires introduisaient les données reçues sur papier dans le fameux M24 que la Olivetti vendait en concurrence avec le fameux personnel computer de la IBM qui venait de naître. 

Nous étions dans les années quatre-vingt, une véritable révolution ce PC, sa naissance avec, peu après, l’arrivée d’internet et de la digitalisation, a changé le monde, en bien ou en mal, il est bien difficile de le dire, en tout cas ils nous a fait progressé dans toutes les technologies. La différence du M24, ce qui a fait son succès mondialement indéniable, il était beau, il était italien, et périlleux car il plaisait. B. en voulait un sur son bureau et comme il savait fort bien le manipuler, il voulait qu’il soit utile et facile à utiliser: Easy. Ce qui plus tard quand je fis le projet en Italie me donna l’idée du nom, mais n’anticipons pas nous n’en sommes pas encore là.

Notre patron sur son bel objet, voulait non seulement accéder aux informations produites chaque semaine par l’ordinateur, mais il voulait pouvoir y accéder journellement, introduire des indications, communiquer avec ses collaborateurs et ses plus importants clients. En un mot comme en cent, il voulait que l’informatique lui serve à diriger son entreprise et pas seulement à faire des factures. Et bien sûr ce raisonnement s’appliquait aussi à toutes les entités de son organisation.

Un beau défi n’est ce pas? Et bien, nous l’avons réalisé mon équipe et moi dans toute la Belgique, un pays qui n’est pas bien grand mais comme on le sait est assez complexe avec ses deux cultures, sa position centrale au centre de l’Europe, et son activité très intense. Dans tous les départements commerciaux ou techniques, pas mal de M24 étaient déjà installés et sur les bureaux, ils disputaient la place au terminal IBM connecté en réseau 3270 avec l’ordinateur central. Le problème c’est qu’on les appelle ordinateurs personnels, chacun les installent comme il le désire et choisi les programmes qu’il souhaite, ou même réalise de véritable petite application. 

Il fut donc évident qui fallait que tous aient la même installation, le même modèle, les mêmes programmes dans leur dernière version. Nous avons donc défini un outil de travail unique, que l’on démultipliait comme Jésus le faisait avec les pains et qu’on actualisait ensuite automatiquement à travers un réseau ethernet privé celui qui serait utilisé plus tard par internet. Nous installions aussi un petit serveur local pour permettre le partage d’informations dans un même batiment qui était géré par une personne qui formait partie de notre groupe (LSA Local System Administrator). Nous avions aussi une école avec du personnel didactiquement capable pour aider les utilisateurs en collaboration avec le LSA. Nous réalisâmes finalement la substitution du terminal IBM en l’émulant sur notre M24 et transformions également les statistiques sur papier en merveilleux tableaux et graphiques excel. Nous organisâmes bien sûr aussi la poste électronique, les messages rapides, intégrâmes même les petites applications locales quand c’était possible.

B. était satisfait quand il fut promu et devint directeur de la filiale Italienne la plus importante du groupe. Deux années après, au début de 1991, on m’invita a Ivrea, la petite cité piémontaise est depuis toujours la ville Olivetti, Camillo l’inventeur de la machine à écrire y est né  et son fils Adriano y développa un nouveau modèle d’entreprise où profit et solidarité social était en équilibre. La société que de Benedetti avait porté avec succès dans l’informatique, lançait une nouvelle famille de produits que l’on appelait la LINEA UNO, petit serveur pour les agences de banques, de ministères et les petites entreprises. Comme toujours notre société annonçait ses nouveautés à grands frais et avec des manifestations impressionnantes, cette fois il avait loué le casino monégasque et quelques hôtels adjacents dans la principauté. On me demanda d’installer la salle de presse et d’y démontrer les services que nous offrions à nos utilisateurs à fin que les journalistes puissent aussi envoyer par mail leurs articles à leurs journaux.

J’acceptai avec enthousiasme, nous étions quasi en Italie, à Montecarlo tous le monde parle aussi italien, il y en avait tellement, toutes l’équipe d’Ivrea était italienne, mon objectif se rapprochai sans nul doute. Cependant même si je place l’Italie et les italiens sur un piédestal, ils ont le défaut ou la qualité des grands artistes, l’organisation et eux, cela fait deux. Je décidai de transporter mes ordinateurs et serveurs tout configurés, je louai un énorme camion et choisi mes meilleurs collaborateurs, hommes et machines se transférèrent à Monaco dans un petit coin de Belgique. Ce fut un succès incroyable, de Benedetti visita notre salle de presse, s’assis devant une station et je luis fis la démonstration. Le lendemain la presse mondiale était inondée d’articles parlant du miracle Italien, l’informatique de demain avec un design digne de la Lamborghini.

Le surlendemain, je signai un contrat pour nous transférer moi et ma femme en Italie et réaliser le projet ISI cette fois. Je pris l’avion en septembre avec une petite valise heureusement pas en carton, ma femme, elle, qui continuait  son travail bien sûr resta à Bruxelles pour préparer le déménagement, organiser tout, et attendre au moins un an pour voir comment cela allait se passer avant de prendre un congé sans solde. L’Italie était un peu plus grande que la Belgique, serai-je capable de m’y adapter, me ferai-je accepter dans un organisation aussi différente, une culture que j’admirais mais on me promettais que l’Italie réelle était différente de celle de Stendhal ou de Jean d’Ormesson.

Je logeai dans la résidence dei Cavalieri proche du siège de la filiale milanaise, via Meravigli, un nom prédestiné semblait-il, mais la vérité était qu’à ce moment je ne savais pas ce qui m’attendait, par où commencer?, aucun de mes collaborateurs belges n’avait voulu me suivre. J’avais rendez-vous avec le directeur administratif et le responsable informatique actuel. Curieux, quand B. leur avait annoncé sa décision, ils avaient organisé un voyage à Bruxelles pour venir à comprendre de quoi il s’agissait et avec qui ils auraient affaire. Je dois dire que la collaboration fut excellente, le responsable informatique prit sa pension quelque mois plus tard, mais il connaissait beaucoup de monde et en particulier il m’aida à trouver l’équipe qui allait m’entourer pendant toutes ses années et qui bien sûr sont aussi devenu mes amis.

Les autres étaient plutôt contre, qui était ce belge qui devait réussir ce qu’ils avaient tenté en vain de réaliser?

Mon rapport avec B, était quasi direct, ce qui m’aidait à surmonter certaines résistances quelques fois extrêmes. Par contre je dus rencontrer des sociétés de consulting aussi importante que Accenture et même celle de Casaleggio, le futur inventeur de Rousseau, d’autres moins importantes me fournirent du personnel hautement qualifié qui s’intégra parfaitement dans le projet. Je trouvai aussi dans le labyrinthe inextricable de l’organisation Olivetti de jeunes personnes qui feraient par la suite un carrière exemplaire. L’équipe formée, nous réalisâmes un pilote dont le succès indéniable libera le projet qui prit rapidement une vitesse de croisière. Un collègue m’avait offert son appartement à louer meublé, je pus faire venir ma femme, le déménagement fut ainsi très léger et comme deux amoureux quinquagénaires, transplantés dans cette merveille qu’est l’Italie, nous pûmes réinventer notre vie.

Je voyageai beaucoup bien sûr, il n’est pas un coin de ce pays, je le répète et je signe, le plus beau du monde, que nous ne visitâmes. Nous découvrîmes la véritable Italie, splendide, variée, riche et pauvre à la fois, décrépie et ruinée mais encore plus belle ainsi, différente surtout, romains et milanais ou mieux encore Palerme et Bolzano sont aux antipodes. La culture, le vocabulaire, l’accent, et avant toute chose la cuisine sont complètement divers, mais ce qui en fait l’unité c’est le sens du beau, de l’élégance, de l’art, comme nulle part je ne le rencontrerai jamais.

La cuisine nous avons appris à la connaitre, à la pratiquer et nous ne nous contentions pas d’une région, c’eut été dommage, les meilleures sont certainement la napolitaine et, beaucoup moins connue, mais avec une touche arabe, la sicilienne, nous vous recevrons aussi bien avec la pasta con le sarde qu’avec le risotto alla milanese et comme antipasto la focaccia de Recco ou le vitello tonnato. Le plus extraordinaire pour moi, c’est la simplicité des plats, la bonté des ingrédients parfois les plus pauvres surtout dans le sud que nous ne connaissions pas du tout, où les plats n’ont d’équivalents que l’extrême beauté de la nature en contraste avec la pauvreté d’un peuple qui, par ailleurs a su conquérir le monde.

Toutes les filiales furent installées en quelques années, le résultat était démontrable. Le projet méritait vraiment son nom “Easy” facile, malgré la réelle difficulté qu’il y eut a changé les habitudes, les procédures, l’individualisme est roi dans ce pays. 

Et ce qui devait arriver arriva, nos commerciaux ne cessaient de le vanter, de plus en plus souvent nous devions le présenter, le démontrer justifier la valeur de l’investissement et notre structure, notre projet se transforma en une division de vente. le premier client fut la Pirelli, mais ceci est une autre histoire, une histoire Italienne.

Jean Claude Fonder

JC, ML, Mimi, Ana, Valeria et les autres…

Quand je posai le point final et remisai ma plume. Je me rendis compte que je l’avais écrit en espagnol. Je vous parle du Projet Easy que j’ai publié il y a peu. C’est évidemment une figure de style, il y a bien longtemps que le clavier, chez moi, a substitué quelque plume que ce soit. Et cependant je me targue d’écrire et, qui plus est en espagnol, c’est ce que je vais maintenant vous raconter.

Si vous avez lu Projet Easy, voussavez que je suis informaticien et que bien que né belge, je vis en Italie, parle italien et même je suis devenu italien. Vous me direz bien sûr, comment est possible une telle transformation.

Je me pensionnai quelques mois avant la date. J’avais passé 4 mois à l’hôpital pour un petit problème cardiaque, rien de grave mais pour des problèmes post opératoires mon séjour s’était prolongé. Résultat, j’étais complètement déconnecté. Je venais de conclure la vente d’un projet millionaire. J’avais été félicité et acclamé sur le podium durant la réunion annuelle que tenait la Citrix, à Orlando en Floride, une fête à l’américaine, à mi chemin entre un rassemblement de boy-scout et la convention d’un parti politique.

Étrange conclusion pour ce qui avait été le Projet Easy. Rappelez-vous la première vente à l’italienne Pirelli, un succès qui fut suivi par beaucoup d’autre pendant plusieurs année jusqu’à la banalisation de ce genre d’infrastructure dans l’ensemble du marché. Nous le relançâmes en affrontant le problème majeur qu’il portait dans son architecture. Nous avions remplacé les tonnes de statistiques sur papier listing par de beaux graphiques interactifs, nous avions substitué les horribles terminaux 3270  de l’IBM par d’élégants PC de design italien, nous avions permis la communication simple et rapide, mais il s’agissait d’une architecture distribuée, comme nous   l’appelons dans nôtre jargon. L’assistance est extrêmement coûteuse, elle doit bien sûr être locale. Que faire alors? Il fallait la centraliser à nouveau mais sans perdre la facilité reconquise. Il fallait virtualiser le PC.

Citrix une société américaine avait développé une technologie qui permettait de le faire en tout ou en partie ce qu’aujourd’hui tout le monde appelle le cloud computing. Le nuage si vous préférez. Mon équipe et moi même, nous lançâmes dans cette nouvelle direction, et rapidement les premiers résultats furent plus qu’encourageants. Nous commençâmes à diffuser cette nouvelle solutions auprès de nos nombreux clients.

La Olivetti, dans l’informatique, et pas seulement, était en perte de vitesse. De Benedetti, son patron, l’avait abandonnée, il n’y croyait plus et avait décidé, à juste titre, comme le futur allait le démontrer d’investir dans le marché des télécommunications. Il créa Omnitel, l’ancêtre de ce qui deviendrait la Vodafone. L’Olivetti sans investissement s’écroula, il commencèrent par licencier les dirigeants, j’en faisait partie, et fut démissionné avec un substantiel dédommagement.

J’avais mes projets et les clients bien en mains. La citrix qui vendait ses produits au travers de petits distributeurs m’engagea sur le champ, je pouvais leur ouvrir la porte des grands clients dans toute l’Italie. Je travaillai dur, le succès ne se fit pas attendre et quatre ans plus tard, je concluais mon dernier contrat. J’étais en pension. Il me fallait faire tout autre chose.

— Racontez-moi tout, qui êtes-vous, votre famille, votre travail …, —demanda  sans vergogne Mimi en espagnol.

Mimi, nous le sûmes plus tard, c’était son petit nom, en réalité elle s’appelait Carmen, et bien sûr c’était une pure andalouse. Je ne vous cacherai pas que ce mot andaluz déclenche en moi des émotions artistiques à n’en plus finir, l’opera de Bizet, le Bolero de Ravel, nuits dans les jardins d’Espagne de Manuel de Falla, le Flamenco, et surtout tout l’héritage que les arabes laissèrent Al Andaluz.

Nous, ma femme Marie Louise et moi, commençâmes ainsi avec elle un long dialogue qui dura des années. J’aurai du enregistrer ces milliers d’heures que nous passâmes ensemble. Nous abordions tous les sujets et pas seulement ceux en rapport avec notre propre histoire, notre connaissance réciproque se transforma en une profonde amitié qui n’est pas près de s’éteindre. Nous apprenions non seulement le castillan mais l’histoire, la politique et surtout la culture espagnole et, plus en général la culture hispanique. Un véritable trésor inépuisable dont, avec notre culture française, nous n’avions pas la moindre idée. Nous nous inscrivîmes alors sur les conseils de Mimi aux activités culturelles du Cervantes. Elle mêne  y donnait un cours de littérature.

Mais n’anticipons pas. Comment avions nous pu en arriver là?

De retour à la maison, au sortir de l’hôpital, un homme comme moi, habitué à travailler à un rythme d’enfer, éprouvait une sensation qui devait être celle d’un lion en cage. Vous n’allez pas le croire, la solution ce fut une télé-nouvelle. En fait un cours d’espagnol en 24 DVD que distribuait durant l’été le Corriere della sera. En trois mois, nous lui fîmes un sort, avec la convalescence je ne pouvais guère sortir. Mais en plus pour un francophone qui parle couramment italien, c’était d’une facilité déconcertante. La compréhension était totale, en plus tous les matins j’écoutais la RNE premier canal pour entendre parler. Ce qui nous manquait évidemment, c’était le dialogue. Pour y remédier, nous participions à tous les cours gratuits, évènements et présentations disponibles à Milan. Un jour, à la Fnac qui existait encore, sur l’heure de midi, Mimi donnait un petit cours sur l’Espagne et les espagnols, merveilleusement nous comprenions absolument tout.

— Pourriez-vous nous donner un cours particulier à ma femme et à moi, deux heures par semaine? —interrogeai après la classe.

Avec Mimi, ce fut comme si nous étions devenus espagnols, non seulement nous parlions, mais nous écrivions, nous suivions tout a travers les journaux, la radio et la télévision, la politique, les sports, les films, les séries. Et puis surtout la lecture, nous avions tant à apprendre et à lire. Je ne tardai pas à comprendre que Cervantes, le Don Quichotte était indispensable, la base qui soutenait tout l’édifice. J’entamai donc ma première lecture de ce chef d’oeuvre, il y en aurait d’autre. Et  nous n’arrêtions pas, nous allâmes avec Mimi à Séville, pour participer à la biennale de flamenco, qui se tenait tous les deux ans, ce devint un rendez-vous obligé. Et bien sûr à Madrid, chaque année aussi nous la visitions comme pour un peu nous en approprier, nous y avions de plus en plus d’amis.

Quant à la classe de littérature en español, je commencé avec Mimi, mais par après nous changeâmes de nombreuses fois de professeur, tous devinrent des amis, les élèves, des femmes surtout, elles et eux petit à petit formèrent un énorme groupe qui allait se consolider en fréquentant la bibliothèque Jorge Guillén et son club de lecture.

Il faut que je vous en parle de cette bibliothèque. Celle de l’Institut Cervantes de Milán quand il était situé via Dante, la rue qui faisant front au château, ce château imposant qui au temps des autrichiens contrôlait Milan. Elle se trouvait au premier étage du bâtiment ancien occupé par tout l’institut. Elle était magique, les murs étaient tapissé de livres, romans bien-sûr mais aussi  de dictionnaires, de livres de référence, de vidéos et même de bandes dessinées. Toute cette connaissance entourait de grandes belles tables en bois que l’on pouvait configurer selon les besoins, mais surtout pour orchestrer ce merveilleux outil, la fée du logis, la maitresse de maison, une personne exceptionnelle, l’amie de tous Ana López. Une parmi les nombreuses activités qu’elle gérait, c’était le club de lecture, Aire Nuestro, selon le nom de l’oeuvre majeure de Jorge Guillén. 

À l’époque, la page internet de l’institut était plus que succincte et bien sûr les réseaux sociaux n’étaient pas fréquentés. Ana avait vu ce que j’avais créé pour accompagner, mémoriser et illustrer le cours que Mimi donnait à ce moment avec pour thème Les médias. Indécrottableinformaticien je n’avais pu m’empêcher d’utiliser les techniques actuelles pour partager avec mes compagnons, ou plutôt mes compagnes de classe les acquis du cours. Avec Ana qui avait vu ce qu’il y avait moyen de faire, nous projetâmes ce qui deviendrait plus tard un véritable revue électronique, nous n’appelâmes Aire Nuestro comme le club de lecture. Le but était de l’accompagner, le compléter, s’en rappeler. Ancore aujourd’hui vous pouvez trouver dans le menu l’historique du club et consulter les articles de l’époque.

Le club de lecture fut créé en 2009 par Ascensión qui était bibliothécaire à cette époque, je fis partie du groupe initial, le premier auteur invité fut Dante Liano, un fameux écrivain Guatémaltèque, auteur d’un livre de contes qui s’occupait de littérature latino-américaine à l’université catholique de Milan. Le modérateur Arturo Lorenzo directeur du centre et écrivain lui aussi, ce fut un vrai succès. Nous continuâmes donc sous la conduite de Ascensión jusqu’en 2012 au rythme d’un livre par mois. Les livres choisis étaient pour les néophytes que nous étions, des grands livres, je n’utiliserai pas le terme de bestsellers qui auraient plutôt été un critère d’exclusion selon nos goûts. Je ne peux bien sûr pas les citer tous, mais si je vous laisse quelques noms vous aurez compris: Roberto Bolaño, los detectives salvajes, José Luis Sampiedro, Santiago Roncagliolo, Luis Sepulveda, Elvira Lindo, …. Nous ne pouvions pas évidemment les inviter, sauf quelques-uns qui était à Milan pour présenter une traduction en Italien. Mais le club fonctionnait bien et le débat entre nous était intéressant, et il y avait de plus en plus de participants.

En 2012 Ascensión quitta le Cervantes et rentra en Espagne, Ana avec son enthousiasme habituel la remplaça, elle n’avait pas fait d’étude pour être bibliothécaire on ne pouvait la nommer, mais pour les usagers, la bibliothèque c’était elle, elle était indispensable, le Cervantes de cette époque ne tenta pas de la substituer. Par contre plus que jamais, les activités d’animation se démultiplièrent, visites d’école, cours d’informatique et bien sûr nous reprîmes les club de lectures, certains d’entre nous dont moi-même, nous nous improvisâmes modérateurs.

En 2014, Valeria Correa Fiz, nous rejoignit pour modérer les clubs organisés avec présence de l’auteur, et en général des livres plus actuels. Elle avait l’expérience, elle était argentine, avocat, avait conduit ce type d’activité en Floride á Miami, et actuellement à Milan elle animait un club à la librairie internationale Melting Pot. 

Nous avions embrayé la cinquième vitesse. Dans le domaine littéraire, Valeria est un puit sans fond de connaissances, de cultures et de compétences, non seulement espagnoles ou latino-américaines, mais aussi anglaises, françaises, etc. Je l’avais connue dans une rencontre de poésie à l’institut, déjà là je fus étonné par ses questions, et son aisance naturelle. D’ailleurs elle est poète elle-même, elle a remporté des concours et publié des recueils. Tous nous furent impressionnés par l’empathie qu’elle sait développer durant nos rencontres. Avec ou sans auteur passer un heure avec elle sur un thème culturel est absolument ineffable.

Elle anima jusqu’ici cinquante et un clubs, dont 30 en présence et vingt et un ligne. Les auteurs et autrices qui participèrent son au nombre de 44. Il y eu de fameux personnages comme Antonio Muñoz Molina, Fernando Aramburu, Marta Sanz, Berna González Harbour, David Trueba, Clara Obligado … Le plus extraordinaire c’étai l’intimité qu’il y avait autour de la table, toute différente d’une estrade où se trouveraient perchés les intervenants à l’abri des questions du public. 

Vous pouvez en juger sur cette photo qui sert de bannière à notre publication. Valeria est au centre de l’image à coté de Muñoz Molina.

Et vous ne voyez que la moitié du public, il y en a tout autant de l’autre côté. En effet nous sommes de plus en plus nombreux. On peut le mesurer chaque année quand Ana organise le jour du livre, la saint Jordi comme à Barcelona. C’est un peu comme notre fête annuel. 

Les premières fois qu’elle nous fit découvrir cette pratique inusitée en Italie, il s’agissait simplement d’offrir une rose aux visiteurs qui se présentaient et lisaient un poème ou un extrait de livre. Par la suite l’intarissable Ana, accompagnée des nombreux volontaires dont elle s’était entourée inventa des jeux, organisa des séance de fotos dans un décors inattendu, trouva des sponsors pour nous offrir un apéritif con tapas à la manière espagnole, j’en passe et des meilleures. Iris, une des volontaires les plus actives, une année réalisa les roses au crochet, chaque fois finalement elle nous préparait de petits cadeaux merveilleux qu’elle fabriquait à partir des matières les plus saugrenues. 

C’est alors que naquit un autre idée qui allait se transformer petit à petit en un véritable café littéraire. Le Tapañol. Tapas en español. Nous avions observé  que la bière et le vin déliaient les langues, après une chope ou une coupe notre espagnol n’en n’était que meilleurs. Une fois par mois nous nous rencontrions dans un bar pour bavarder en español. Le succès fut immédiat, de plus en plus de personnes y participaient. Au contraire de ce que certaines écoles organisaient, ce n’était pas un cours mais une simple rencontre entre amis pour parler de tout et de rien sans contrainte. Après quelques années évidemment l’affluence se réduisit, il fallait quelque chose de plus pour relancer l’idée. 

Le concours de Microrrelatos non seulement sauva nos rencontres mais allait faire naître une source inépuisable de textes et d’auteurs qu’encore aujourd’hui se publient avec succès dans la revue du même nom. C’est très simple sur un thème donné, ou une peinture ou une photo, les participants envoie un texte de petite ou de moyenne dimension par courrier électronique. Les textes sont assemblés, révisés et soumis au public du Tapañol pour être votés. À l’époque dans le bar les auteurs les lisaient eux-mêmes. Les gagnants étaient publié sur internet dans une la revue qui déjà à l’époque atteignait dans tout le monde hispanique plus de 300.000 lecteurs.

Si vous aimez lire, vous aimez connaitre: connaitre c’est aussi vous plonger dans d’autres domaines, d’autres histoires, d’autres vies réelles ou imaginaires. Mieux encore avec l’écriture vous aller pouvoir les créer e les raconter.

Cela Valeria le savait bien, elle qui publia pendant que nous la fréquentions  non seulement de nouveau recueils de poèmes mais surtout deux merveilleux livres de nouvelles, La condición animal et Hubo un Jardín. Vous devez savoir que non seulement elle animait la plupart des club de lecture, mais avait pris en main le cours de littérature contemporaine, organisait des séminaires de lectures et surtout, finalement, dirigeait un cours ou plutôt un atelier d’écriture créative. Pour notre groupe elle était devenue indispensable.

Ce fut un coup de tonnerre dans un ciel serein quand nous apprîmes en 2015 qu’elle se transférait à Madrid, pour sa carrière littéraire bien sûr, mais aussi parce que son époux également devait se transférer.

Curieusement c’est cette situation qui allait nous aider à être parmi les premiers à dépasser et même à transformer en succès la période du Covid, la terrible pandémie de 2020.

Le club de lecture continua car Valeria venait à Milan, pour l’animer. La classe de littérature nous reprîmes à changer régulièrement de professeur. L’atelier d’écriture, c’était un grand problème. Le Cervantes me demanda de trouver une solution. Nous installâmes dans la bibliothèque, où l’atelier avait lieu, un grand écran et une camera au bout d’une grande table, au milieu de la quelle il y avait un micro conférence, le tout connecté à un ordinateur équipé du software Skype (vidéophonie) , ce qui permettait de transporter en quelque sorte Valéria dans la bibliothèque et à elle de nous voir tous ensemble tranquillement assise chez elle derrière son bureau et son ordinateur. C’était moi qui était derrière le clavier à Milan, j’étais devenu en plus de participant, une espèce d’assistant cybernétique comme aime encore aujourd’hui m’appeler Valeria, et on ma surnommé JC, c’est plus facile à prononcer que Jean Claude pour un espagnol ou un Italien.

Quand le confinement devint inévitable et que les rues était désertes, nous étions tous derrière notre ordinateur, pour beaucoup désormais leur instrument de travail, pour d’autres un meilleur moyen que la télévision pour voir des films ou des séries, assister à des conférences ou à des concerts. Les instruments de vidéoconférence se déchainaient. Je choisis Zoom un nouveau venu qui démontra rapidement d’être le meilleur malgré la guerre sans pitié que menèrent contre lui Microsoft, Google et d’autres. J’achetai la versión professionnelle et proposai au Cervantes de Milan de reprendre “en ligne” le séminaire de littérature et surtout l’atelier d’écriture avec bien sûr Valeria qui n’hésita pas à ce lancer dans l’aventure. Ce fut un succès immédiat, notre groupe y était préparé, nous étions les premiers et Valeria était géniale derrière un écran. Cela ce su rapidement et les participants hors de Milan, hors des frontières et quelques fois même hors de notre continent ne tardèrent pas à nous rejoindre. De plus l’usage de l’informatique permettait de tout enregistrer, donc être absent, avoir un empêchement n’était plus un problème, on pouvait tout revoir, les classes et les clubs de lecture.

Je vous laisse imaginer ce qu’il se passa pour ces derniers. L’auteur pouvait toujours être présent, des frais de voyage il n’y en avait pas, seul les horaires pouvaient être un problème pour le décalage. Au début la participation dépassa tous nos espoirs, pour Marta Sanz si je me rappelle bien nous avions, connectées, près de cent personnes, mais le plus formidable fut que Valeria pût inviter durant les séminaires des auteurs originaires de toute l’Amérique Latine.

Bien sûr la fin de la pandémie, fit renaître l’envie de serrer les mains, de s’embrasser, de connaître directement les personnes, mais l’innovation, le raccourcissement des distances, l’enregistrement et bien d’autres avantages, on ne pouvait pas les reperdre. Donc il faudra bien que le virtuel et le présenciel coexiste.

Le Tapañol est un exemple. Lui aussi, pour l’aspect concours de micros, s’adapta parfaitement, la participation pu s’élargir et le processus de sélection se fit naturellement, aujourd’hui ce sont d’excellents écrivains qui y participent. Mais quand les contacts purent reprendre nous lui dédiâmes une journée supplémentaire ou les milanais pouvaient bavarder, lever le coude, et “tapear” sans restrictions dans un bar sympathique.

“The truth is that writing is the profound pleasure and being read the superficial.” (Virginia Woolf)

« La vérité, c’est que l’écriture est le plaisir profond et être lu le superficiel. » (Virginia Woolf)

“La verdad que escribir constitue el placer más profundo, que te lean es solo  un placer superficial.” (Virginia Woolf)

C’est très vrai je crois, mais qui donc rejette le superficiel? 

Nous nous étions créé au travers de toutes ces activités un outil puissant, le blog, les blogs et les réseaux sociaux pour les distribuer.

Aire Nuestro (150 mille lecteurs) et Los Amigos de Cervantes (450 mille lecteurs). Derrière eux, une véritable banque de donnée Microrrelatos del Tapañol qui sous forme d’une revue électronique reprend, assemble et permet de naviguer dans les centaines de textes que nous avons publiés.

Ce texte que vous êtes entrain de lire s’y trouve, même si vous avez reçu le lien par les blogs ou les réseaux sociaux. Il fait partie d’un recueil de récits de JC Fonder que j’ai appelé “Nouvelles”.

Jean Claude Fonder

Le meilleur ami

Madeleine était épuisée, tout son corps tremblait sous le poids merveilleux de Georges, son amant depuis toujours, une belle pièce d’homme, son meilleur ami. Ce fut son premier quand à 16 ans il l’avait déflorée par jeu, elle voulait savoir, comprendre. La vie, les circonstances et ses parents les avaient séparés, mais de tant à autre ils ne manquaient jamais l’occasion de se retrouver. Cela finissait toujours ainsi, il s’endormait en elle, il la possédait totalement.

Pierre Dupuis, ouvrit la porte avec difficulté, la clef semblait ne pas vouloir rentrer dans la serrure. Il pleuvait cette nuit-là et le retour avait été pénible. Les phares qui l’aveuglaient, les nuages d’eau qui battaient la voiture comme une mer déchainée, les essuie-glaces qui ne suivaient pas, une torture, plusieurs fois il s’était arrêté, dans une aire de repos. Il voulait pouvoir penser. 

Qu’allait-il dire? Carmen avait été intransigeante, il devait se déclarer aujourd’hui, sinon c’était fini. Il était si heureux avec elle, sa vie sexuelle était pleine, Carmen savait l’emmener au de là de lui même, elle n’avait aucune limite son imagination dépassait tout se qu’il avait jamais rêvé. Avec Marie sa femme, il y avait toujours quelque chose, la lumière, les voisins qui pouvait les voir, elle avait ses règles, les enfants allaient se réveiller, …

Georges, était sous la douche, elle était très chaude et cela ravivait son désir. Madeleine était une femme exceptionnelle, elle était sa meilleur amie, elle le comprenait, elle savait anticiper ce qu’il aurait souhaité mais surtout avec elle il était bien, il pouvait parler des heures ensemble. Il se connaissait comme frère et soeur. Avec Carmen, ils ne se rencontraient jamais. Leur mariage avait été une brillante cérémonie, sous le feu des médias évidemment. C’était leur interêt, leur célébrité en fut ravivée, pour quelques années seulement. Ils ne tournèrent qu’un seul film ensemble.

Il ne douta pas et se dirigea à nouveau vers lit.

Pierre complètement trempé, retira son imperméable et son veston. Il portait son holster à l’épaule, il hésita si le garder ou pas. Son métier conseillait de ne jamais le quitter, puis il y avait la scène qui allait suivre. Il ne se voyait pas déclarer à Marie qu’il avait une maitresse et qu’il voulait la quitter en tenue de travail. 

Qu’allait il dire?

Ce n’était pas une amante exceptionnelle, mais c’était une mère admirable. Ils avaient  eu deux jumeaux. Il en était si fier. C’était elle qui avait su les élever, elle savait être dure et sévère, mais aussi douce et caressante et lui qui par métier était si souvent absent. Quand Carmen tournait en Europe, cela pouvait durer des mois. Il monta à l’étage où se trouvaient les chambres. Il passa devant la chambre des jumeaux qui était entrouverte. Il jeta un coup d’oeil à la porte silencieuse de sa femme, il se rappela la naissance douloureuse de John et Jonatan. Marie avait souffert mille morts. Il ne pouvait pas l’abandonner ainsi.

Cette Carmen qui le dominait, l’emprisonnait par le sexe, elle ne pouvait pas lui enlever cela, cette famille pleine d’amour et de tendresse. Il regarda à nouveau les jumeaux dans leur chambre décorée comme un camp indien. Il sortit son pistolet et se rappela les jeux infinis que son arrivée en voiture déclenchait. Les attaques à la diligence, “paf, paf”, les coups de feu qu’il simulait pour se défendre de ses petits indiens tout peinturlurés et couverts de plume.

Soudain un cri prolongé et effrayant sortit de la chambre de Marie.

Madeleine ouvrit très fort les jambes, puis les resserra sur le dos de son amant pour qu’il pénètre au plus profond d’elle même. Son cri était interminable comme l’orgasme qui la secouait si terriblement. La porte vola en éclat, Pierre qui hurlait lui aussi déchargea les six coups de son pistolet dans le dos ensanglanté, déchiqueté de Georges Cloen. Le bras de Marie Madeleine Dupuis retomba inerte sur le lit, au flanc de son corps sans vie.

Jean Claude Fonder

Scènes de Western

Jolly progressait lentement bien que la faim tenaillât son estomac vide après une journée entière de voyage. La descente était difficile vers la petite ville de Fort Jackson, la pente était forte mais le chemin était large et sinueux, il déployait ses lacets sur les flancs des montagnes environnantes, la vue était majestueuse. Luke, le Stetson bien enfoncé sur les yeux pour se protéger du soleil contemplait les quelques baraques en bois qui composait cet ancien fort, aujourd’hui repaire d’une bande de hors la loi, les Daltons. 

Kathy, remonta sa culotte bouffante, réajusta son corset, tira ses seins au dehors et passa un peignoir grand ouvert qui découvrait généreusement sa poitrine opulente. Tout son corps perché sur des escarpins se balançait au rythme de chaque pas qu’elle faisait pour descendre les marches de l’escalier qui montait aux chambres que les filles du Saloon pouvaient utiliser pour y exercer le plus vieux métier du monde. Au son déglingué d’un vieux piano ces beautés pirouettaient entre les tables où les cow-boys, les chercheurs d’or et les hors-la-lois jouaient au poker ou cuvaient simplement le whisky frelaté que produisaient les patrons du bar et qu’ils vendaient comme s’il provenait des caves de quelque manoir écossais. 

Joe, Jack, William et Averell Dalton, surnommés les frères Dalton, assis à un table adossée au mur, se chamaillaient comme s’ils avaient encore 16 ans. Averell avait dégainé son Smith & Wesson à six coups. Il le secouait en hurlant sous le nez de son frère Joe qui demeurait impassible comme un statue du musée Tussaud. Kathy se précipita craignant une tragédie Shakespearienne. Elle attrapa Averell par les cheveux, enfouit son visage entre ses nichons et c’est à peine si elle ne l’étouffât pas sous les yeux hilares de ses frères.

À ce moment l’ombre de Luke pénétra dans le bar sous la porte à battant de l’entrée. Les quatre Dalton déchainèrent un feu d’enfer, la porte vola en éclat. Et quand, peu après, le shérif du lieu, qui portait au bout de son fusil le même couvre chef que le fameux chasseur de prime, s’encadra dans l’ouverture détruite, leurs armes étaient vides et la voix de Luke qui était derrière eux deux Winchesters dans ses mains retentit: «Hands up!».


— Joe, j’ai préparé  ton porridge, —hurla Cathy à l’extérieur de la porte. 

Joe Dalton enfermé avec ses autres frères dans la cellule  installée dans le bureau du Shérif, se réveilla brusquement, s’accrocha aux barreaux et interpella le shérif qui somnolait couché sur son bureau.

— ¡Billy! Réveille-toi! —Hurla-t-il. — Cathy m’a apporté mon déjeuner habituel.

— Blague pas Joe, on est pas au Ritz, ici.

— Allez Joe, ce sera le premier jour de ma vie sans mon porridge. Cathy est la dehors, ne le laissons pas refroidir.

— Tu exagère Joe, — intervint soudain Averell, en s’approchant, — moi je voudrais…

Joe sans prévenir lui donna un violant coup de poing dans l’estomac qui lui coupa le souffle. William lui plaqua la main sur la bouche et le tira en arrière où Jack également le maintint également immobile.

— Imbécile souffla William à son oreille.

Entretemps le Shériff avait ouvert la porte à Cathy emmitouflée dans une grande cape qui ne laissait rien voir de son corps qu’elle avait abondant.

Elle se précipita vers la cellule en portant sa grande casserole à bout de bras.

— Ouvre-moi. s’il te plait Billy, c’est très lourd. 

— Ne me prend pas pour un idiot dépose cela sur mon bureau.

Cathy obtempéra. Mais à peine le Shériff se pencha-t-il pour ouvrir la casserole, elle rejeta en arrière toute sa cape et tous purent admirer la splendide poitrine de la jeune femme bardée de pistolets. Elle dégaina un six coups avant que Billy eusse pu faire le moindre mouvement, tira en l’air et pointa la gueule de l’arme sur le front de l’homme étoilé, tout en jetant aux frères Dalton les autres ceinturons qu’elle portait.

Ceux-ci menacèrent aussi le Shériff qui savait qu’ils n’hésiteraient pas à tirer s’il n’ouvrait pas la porte de leur prison.

À cet instant plusieurs coups de fusils qui venaient de l’extérieur firent voler la fenêtre du bureau et criblèrent la cellule, Joe fut blessé à l’épaule et Luke entouré de plusieurs adjoints entra la winchester fumante à la main.


—Luke, tu peux me fouiller.

—Pas de problème, Cathy, je sais que tu es innocente.

—Eh bien, mon cher, tu ne sais pas ce que tu perds, j’en suis intimement convaincu.

La scène se déroulait devant la porte de Doc Bradley, où le pauvre Joe Dalton avait été installé dans un lit. Le pauvre homme avait été blessé lors de l’altercation qui avait précédé sa capture. Doc Bradley, qui était ivre toute la journée, comme tous les soirs, avait été remis sur pied par Luke à coup de seaux d’eau glacée. Personne ne le croira, mais sous la menace de la Winchester de Luke, il avait réussi à retirer la balle logée près de l’omoplate dans l’épaule de notre bandit. Ce matin, il était déjà mieux et bandé comme une momie, le Stetson placé sur le visage, il ronflait généreusement. Luke, assis à travers la porte, bloquait le chemin.

— Si vous me laissez entrer, je voudrais le soigner.

— Il dort, tu vas le réveiller.

— Les soins que je peux prodiguer sont inestimables, mon cher.

Elle  releva sa robe hardiment devant le blessé.

Celui—ci, sans hésiter, sortit un Derringer à deux coups qu’elle avait introduit comme un trésor dans sa plus tendre intimité.

« PAN !»

Un coup de feu fit voler l’arme hors de sa portée. Lucky Luke, rengaina, il avait tiré plus vite que sa pensée…


Jean Claude Fonder

El pintor de las ventanas

La Ventana
AZhivotkov Vladimir Vladimirovich (1970)

Le gustaba pintar ventanas, eran como un libro que le permitía evadirse.

Uno de sus primeros cuadros, un gran dibujo en blanco y negro, muestra a una joven vista desde atrás que observa desde un gran ventanal un campo de jóvenes árboles que se extiende ante la masa oscura de altas y opresivas construcciones industriales. Por supuesto, en la Rusia de Brezhnev, como en la de Stalin, los temas debían ser realistas y evocar el mundo del trabajo. Pero eso no le impedía soñar, su imaginación se escapaba con la de la joven.

Con el tiempo los súbditos se iluminan, un baile, unos pescadores que extienden sus redes junto a sus barcas que se tambalean sobre el río, el color aparece, algunas manchas primero y luego todo el cuadro será pintado con óleo, y por supuesto, las ventanas que nos hacen ver el mundo o cada vez más nos hacen soñarlo.

Con frecuencia algún objeto, frutas, una taza de café, un jarrón, flores, ramos de todo tipo, delante de una ventana le permitían evocar las escenas más diversas. Un camino que penetra en el bosque misterioso, el mar que se abre al mundo, hojas que vuelan arrastradas por la tormenta que se avecina.

Aquella mañana, el aire era azul, el cielo ampliamente despejado con esta frescura que, en la montaña después de la tormenta, nos abre el corazón, nos carga de energía. Esa mañana había recogido un hermoso ramo de flores azules y algunas margaritas inmaculadas. La montaña todavía manchada de un poco de nieve se miraba índigo a través de una pequeña cortina transparente que había añadido en la parte superior de la ventana. Terminó el cuadro entusiasmado, lo llamaría La ventana azul. Un azul que le recordaba esa Europa libre que se creaba a las puertas de ese telón de acero que comenzaba a agrietarse poco a poco. Empezó a tararear suavemente y luego más y más fuerte el Himno a la Alegría.


Jean Claude Fonder

La maison des fleurs

Das Landhaus
Abbott Fuller Graves (1859 – 1936)

Había tantas flores que ya no se veía la casa. Era la casa que mi tío Roberto había hecho construir sobre las estribaciones del Lago de Como. Databa de finales del siglo XIX. Los árboles, los arbustos no habían dejado de crecer y mi tío, que había creado el jardín, era su pasión, lo había querido contener. Se había convertido en un verdadero bosque virgen y, como si no fuera suficiente, había macetas de cerámica que se habían dispersado por todas partes. Cuando iba allí en pleno verano, la exuberancia estaba al máximo, el calor nos obligaba a regar sin parar, la temperatura era pesada, la humedad alcanzaba récords que se asimilaban a los de una región tropical.

En aquel momento estaba en plena adolescencia, me sentía en armonía con aquella naturaleza enardecida que no dejaba de multiplicarse, me embriagaba de los perfumes hechiceros que circulaban por toda la casa, me dejaba llevar por el juego de los colores que la naturaleza concertaba en este jardín maravilloso. No era el único, mi familia era numerosa, a los jóvenes les gustaba frecuentar esta gran casa.

— Lucas, ven a tomar un refresco con nosotras

Lucía y María, dos de mis primas, tomaban el sol junto a un pequeño estanque cubierto de nenúfares. Cuando me acerqué, ellas se enderezaron cubriendo con pudor sus pechos jóvenes que, temerarias, exponían en aquel cálido final de tarde. Me instalé junto a ellas en el refugio sombreado de un árbol con castas flores blancas, sobre la mesa había bebidas heladas cuyo perfume y sabor dulce desató la conversación. Pronto Lucía se inclinó tiernamente hacia mí y sus labios pulposos rozaron la esquina de mis labios para darme las gracias por un cumplido que no dudé en pronunciar hermosamente cuando al tomar su vaso soltó el velo que la cubría. María, por supuesto, no quiso quedarse atrás, y me pidió que comparara sus propias ventajas con las de su amiga. Me besó francamente cuando supe encontrar la fórmula que me permitió cubrir de elogios equitativos a las dos jóvenes diosas como si formaran parte de un famoso cuadro.

El final del día no se hizo esperar y nos dirigimos amablemente hacia las habitaciones del primer piso. Una escena bucólica, que, estoy seguro, un pintor algún día ilustrará.


Jean Claude Fonder

El tranvía de noche

En Milán los llaman Jumbo, eran tranvías enormes, el nombre estaba justificado, verdaderos vehículos blindados que se configuraban en dos coches interconectados con un pivote. Eran largos y anchos, podían llevar a mucha gente. En la línea 16, la que servía a San Siro, era muy necesario los días de partido. Otros días fuera de las horas pico, o por la noche el tranvía estaba más o menos desierto. El conductor se aislaba en su cabina, conducía y no se ocupaba en absoluto de lo que podía ocurrir dentro del vehículo. Con los espejos laterales, vigilaba las puertas para cerrarlas o abrirlas según las señales que se podían activar por medio de los botones de los colores apropiados.

La parte delantera del tranvía, era la parte civilizada, la frecuentación era la más normal, mujeres, niños, ancianos, el vehículo estaba limpio y ordenado, había menos hombres. En el fondo, el mundo era rock, rap o el nombre que quieras, es decir, asientos, ventanas estaban pintadas, llenos de desperdicios de comida, latas de cerveza y otras cosas, no era raro que el olor fuera insoportable.

Estábamos en Navidad, un viernes por la noche, no había mucha gente, hacia el final del primer vagón un par de personas mayores. El hombre era robusto y sano, hundido en un grueso abrigo, llevaba un sombrero de ala ancha, hablaba con su esposa pequeña, en traje de invierno, pantalones negros y chaqueta de piel, ella estaba sentada en la ventana, su pelo corto bien peinado no estaba cubierto. Detrás de ellos, al comienzo del segundo coche, dos adolescentes, vestidas de discoteca, escandalosamente maquilladas y con poca ropa a pesar del mal tiempo. No dejaban de tocar sus teléfonos y no prestaban atención a nada.

Tres chavales de la misma edad, todos de cuero vestidos, una botella en la mano, la cabeza rapada, uno de ellos la había coronado con una cresta de iroqueses de color amarillo, subieron por la parte trasera cuando el tranvía se detuvo. No tardaron a fijarse en las chicas.

— Dime belleza, tienes unas tetas bonitas —dijo burlonamente el de pelo amarillo, agarrando sin dulzura el pecho de la primera.

Ella se retiró bruscamente, su vestido se desgarró por completo, su amiga intentó cubrirla, el tío insistía manifiestamente borracho perdido, ambas gritaban al unísono.

Sonó un silbato estridente, el hombre con el sombrero se había levantado, su mujer aún tenía el silbato en los labios.

— Lárgate de aquí, pendejo.

El cabrón se levantó, rompió la botella que tenía en la mano, y avanzó hacia el hombre amenazándolo. En ese momento su mujer silbó de nuevo, el tranvía se detuvo bruscamente, el niño se tendió en el suelo. La puerta se abrió y el hombre empujó firmemente al tío ebrio a la calle, los otros dos huyeron con él. El conductor se acercó para ver si todo estaba bien, la mujer ayudó a la chica a arreglar como pudo su vestido, luego ella y su marido saludaron y se alejaron tranquilamente. No estaban lejos de casa.

Jean Claude Fonder

El cuarteto

Claude Lefebvre saluda, recibiendo un trueno de aplausos, acababa de ejecutar la pieza maestra de su repertorio El cuarteto nº15 de Franz Schubert. Mira con afecto a sus tres amigos que forman con él el famoso cuarteto que lleva su nombre, piensa por un momento en la cruz que había sido necesario llevar para llegar allí y saluda de nuevo.

Su conjunto lo habían formado al salir del conservatorio, tenían apenas veinte años, eran todos los cuatro jóvenes y guapos, dos chicas y dos chicos, dos parejas finalmente que adoraban salir, festejar, y encontrarse a la mañana siguiente con la cabeza pesada, encorvados sobre sus instrumentos para tocar siempre juntos las obras más importantes para formarse un repertorio a la altura de sus ambiciones.

Y funcionó mejor de lo que jamás hubieran podido imaginar, el éxito ayudando, firmaron un contrato con el  mayor sello de disco alemanas. En poco tiempo se convirtieron en uno de los cuartetos más buscados del mundo. Y ahí fue cuando comenzaron las dificultades.

No es fácil para dos parejas jóvenes vivir cada momento juntos, espectáculos, interminables repeticiones, y, además,  las celebraciones, porque la calidad engendra un éxito casi obligado. La intimidad, aparte de unas breves vacaciones, fue ampliamente sacrificada.

Marie-Angèle tocaba la viola, se conocían desde la infancia, se inscribieron juntos en el conservatorio, ella eligió este instrumento para poder tocar a dúo con Claude. A los 18 años se casaron. Fue la novia más bella que jamás conoció.

Charles era su mejor amigo, se conocieron en clase de violín, siempre estudiaban juntos. Él era probablemente el más atractivo. Tuvo el mayor éxito con la chica más bella del conservatorio, Jeanne, una violonchelista. Todos estaban un poco enamorados, ella era muy sexy cuando abría sus largas piernas para sostener el instrumento y su pelo cortado en casco le ocultaba la cara cuando se inclinaba para tocar una nota grave. No tardó en conquistarla y también él la convirtió en su esposa. 

— Claude, hazme bailar esta noche, Charles ha bebido demasiado.

Jeanne acababa de invitarlo, la noche había sido larga, habían comido demasiado y las copas de champán habían seguido a brindis para celebrar los veinte años del Cuarteto Lefebvre. La orquesta latinoamericana tocaba una de sus danzas en que los cuerpos deben pegarse. Claudia no pudo disimular su excitación y durante la noche, Jeanne fue a encontrarse con él en el salón que es adyacente a su habitación aprovechando del profundo sueño de su esposa. El deseo que desde hacía mucho tiempo sentía por ella despertó quizás en ella la concupiscencia.

Durante unas semanas intentaron lo imposible para multiplicar los momentos para verse. El drama no dejó de estallar, Marie-Angèle sospechó algo e interceptó las miradas que intercambiaban frecuentemente Jeanne y Claude.

Al final, todos se separaron y el Cuarteto quedó en un punto muerto. Tenían que cumplir sus contratos y no podían verse.

La relación que Claude tenía con Jeanne se marchitó rápidamente. Intentó volver a conectar con Marie-Angèle, pero ésta se negaba a encontrarse con él, le sugirió incluso engañarlo con Charles para compensar. Era ridículo, él lo sabía. ¿Pero qué hacer entonces?

¡La música! Todos la echaban de menos terriblemente, eran sobre todo músicos, y el nivel al que habían llegado tocando juntos, no podían alcanzarlo tocando por separado.

Los aplausos se intensifican, se miran sonriendo y vuelven a repetir el último movimiento.

Jean Claude Fonder

El pez dorado

Niños pesando en un Muelle
Nicolai Bogdanov-Belsky (1868-1945)

– ¡Mira Igor, un pez dorado!

El ancho y pacífico Volga fluye sus tranquilas aguas en medio de la estepa. Dimitri y su amigo Igor, que se refresca los pies en el agua, observan los peces que se acercan para ver si hay algo que comer. Se instalan temprano por la mañana en un pequeño pontón rodeado de juncos. Su amigo Vassili, que es mayor, vigila la caña de pescar que ha lanzado en este pequeño rincón donde abundan los peces.

– ¿Crees que hay peces dorados en el río? -pregunta Igor.

– Será alguien que derramó su pecera, responde Dimitri. – Debe de tener hambre, en el acuario lo alimentaban. Tal vez deberíamos atraparlo.

– Shh, te va a escuchar Vassili. Hoy no ha pescado nada.

Los dos niños siguen observando el pez dorado que, afortunadamente, no deja de girar alrededor de los pies de Igor. Pero como no encuentra nada comestible, de repente se dirige hacia el anzuelo y el gusano que está colgado en él. ¿Qué puede hacer? Sin duda se tragará todo, Vassili verá el flotador moverse, atrapará a su víctima y la sacará del agua sin dificultad. Los dos comienzan a gritar, por supuesto el pez no puede oír, pero Vasili se da la vuelta asustado sin entender, vacila, pierde el equilibrio y cae en el río. El pez dorado ya no está.

«Edgard, querido, tu cuadro es maravilloso, veo que te seduce también a ti.»



Jean Claude Fonder

La cita

Automat de Eward Hopper, 1927

Nueva York 7 de enero de 1926, 5,30h am.

El pasillo del metro estaba oscuro, apenas iluminado por una doble fila de luces de techo cubiertas de polvo. Una señora bastante joven, envarada en un gabán verde, cuello en imitación de piel marrón oscuro y sombrero amarillo hundido hasta el cuello, añade delicadamente azúcar y leche al café preparado por un gran autómata. Luego se dirige lentamente hacia una mesa y se sienta de espaldas a la ventana. Con una mano sin guante levanta cuidadosamente la taza caliente para llevarla a sus labios. Está cuidadosamente maquillada, los pómulos y los labios bien rojos, su vestido bajo el abrigo generosamente escotado. Está sola, el bar está vacío. 

Cada pocos minutos levanta los ojos hacia la puerta que no se abre, luego se vuelve hacia el pasillo siempre vacío. Mira el reloj colgado sobre el bar. Ya son las seis. Dos agentes de policía, empujan la puerta, saludan al hombre detrás del bar que muestra que los conoce bien, se dirigen hacia la cafetera y se sirven también una gran taza ardiente, charlan unos instantes con el gerente, echan un vistazo a la joven y salen sin decir una palabra más. El gerente viene a recoger la taza vacía de la cliente:

— ¿Quiere algo más?

— Espero a alguien —responde con una voz ronca.

El mundo comienza a llegar, el bar se llena pronto, se hace fila delante del autómata. Algunos piden en el bar, un pastel, huevos, té, o una limonada. 

Un hombre más joven entra, lleva un canotier, la joven lo observa, luego gira la cabeza con tristeza. Se acerca y pregunta a la joven si se puede sentar con ella en la mesa. Aunque parece un poco ebrio, ella no se atreve a negarse.

— Un Borbón por favor, —pido al gerente, —y usted señorita ¿desea beber algo?, la invito.

El gerente se acerca e indica la puerta al maleducado diciéndole que se equivoca de lugar. La joven se levanta y se pone en fila para la cafetera, los clientes la dejan pasar. Ella agradece sirviéndose otra taza, y en el bar pide un panqueque y vuelve a sentarse. El gerente le lleva el panqueque, instala el cubierto y le pregunta si no quiere nada más. Ella le mira sin decir palabra y niega furiosamente con la cabeza.

Las parejas, e incluso las mujeres solas llegan en este momento, cerca de las ocho. La mayor parte son sin duda empleados que se dirigen a su trabajo. Algunos incluso llevaban el Gibus y su atuendo muestra un nivel superior. Con quevedo en la nariz, muchos leen el periódico que un chico vende en la puerta del bar. Toda la ciudad de Nueva York apresurada por los negocios parece estar tomando el metro.

Por supuesto, acepta personas en su mesa. Pero no come. Su mirada permanece fija en la puerta. La persona que debía reunirse con ella aún no ha llegado. La hora avanza. Poco a poco el número de personas disminuye, y vuelve a encontrarse sola. El café delante de ella está frío. Tiene un pañuelo en la mano y sigue mirando el reloj.

Alrededor de las diez el gerente vuelve a la mesa.

– No ha tocado nada, – vuelve a preguntar.

Ella abrió su bolso, pagó y con los ojos llenos de lágrimas se marcha corriendo.

Jean Claude Fonder

El cuadro

El tocador
Edgar Degas (1834 – 1917)

¡Dios mío, ¡qué belleza! No me creía tan hermosa.
Una “chute de reins” vertiginosa.
Una espalda desnuda y frágil, con la cintura ajustada sobre un trasero cuyas curvas esperan una caricia.
Y luego, vestida así, con mi combinación bajada, apenas retenida por mis caderas prometedoras, el nacimiento de un muslo carnoso, un seno pesado.
Cuando estoy enderezada mis pechos son demasiado pequeños. x
Pero ahora parezco una esclava que se va a ofrecer a la subasta.
Me siento terriblemente atractiva, basta mirarte.
Mi pelo pelirrojo esconde toda mi cara, la parte inferior, mis piernas, tampoco se ven, no sabía que mi espalda te gustaba tanto.
La has pintado a menudo, ahora me doy cuenta.
También me gustan los colores. Las telas y los muebles combinan con mi cabello, pero lo dominante es este azul un poco morado que crea un ambiente tan sensual.

«Edgard, querido, tu cuadro es maravilloso, veo que te seduce también a ti.»



Jean Claude Fonder